Il basket femminile: spettacolare come 120 anni fa (Parte I)
Questi sono giorni in cui si fa la storia della pallacanestro, come 120 anni fa accadde durante la Fiera Mondiale di St. Louis a una squadra di studentesse giocatrici di pallacanestro imbattibili.
Caitlin Clark ha 22 anni, è originaria dell’Iowa ed è considerata la più forte giocatrice di basket universitario. Di oggi, e probabilmente di sempre. Via il probabilmente: Clark ha realizzato più punti di qualsiasi cestista dell’università, inclusi i colleghi maschi. Il contatore è arrivato a 3.865. Ieri sera, durante la semifinale al cardiopalma terminata 69-71 contro il Connecticut, Clark ha trascinato la fortissima squadra dell’Iowa in finale. Giocherà contro l’Università della Carolina del Sud e sarà la sua ultima partita da atleta studente, perché ha deciso di optare per il “draft”, cioè la cerimonia in cui le squadre professioniste selezionano gli atleti studenti. Il “draft” si svolgerà il prossimo 15 aprile a New York e Clark è il “pick 1”, la scelta numero 1.
È una vera e propria eroina, ed è tra gli atleti studenti a guadagnare di più dagli sponsor, da quando cioè la Corte Suprema ha concesso anche agli studenti sportivi di “vendere” i propri diritti d’immagine per profitto. Gli stadi dove gioca fanno sempre il tutto esaurito, i biglietti per le sue partite raggiungono prezzi stellari: si è arrivati a 3.800 dollari, il prezzo più alto mai pagato per una partita di basket universitario femminile. Tra il pubblico si contano personaggi famosi. Ieri sera c’erano Machine Gun Kelly, Jason Sudeikis (Ted Lasso), e Brianna Stewart, giocatrice della nazionale di basket statunitense, campionessa olimpica di Rio e Tokyo, e tre volte campione del mondo. La partita ha avuto un picco di 17milioni di spettatori, la cifra più alta mai registrata dal canale ESPN per qualsiasi partita di basket, sia esso maschile, femminile, studentesco, o professionista.
La March Madness è il culmine, il momento più spettacolare del torneo, e Clark ha il palcoscenico che si merita, ma le disparità tra campionato universitario maschile e femminile sono ancora molto forti. Innanzitutto, una copertura dei media che privilegia sempre il basket maschile. Alle donne si riservano attrezzature meno sofisticate, meno spazi per esercitarsi, stadi meno capienti, e anche un numero ridotto di borse di studio per studentesse. Le squadre femminili usano alberghi e mezzi di trasporto di qualità inferiore rispetto a quelli concessi ai colleghi maschi.
Eppure, il basket universitario femminile americano ha radici profondissime ed è spettacolare tanto quanto quello maschile. Tanto spettacolare che, centoventi anni fa, una squadra studentesca femminile fu chiamata a esibirsi alla Fiera Mondiale di St. Louis, e, subito dopo, alle Olimpiadi nella stessa città, cioè le prime olimpiadi dell’era de Coubertin sul suolo americano. Un onore che non fu riservato ai colleghi maschi.
Ma cosa c’era di speciale? E chi erano le campionesse tanto formidabili da essere richieste ed esibite a una Fiera Mondiale? La storia di questa squadra è affascinante, complessa, e, come tutte le cose complesse, troppo poco conosciuta. Nel tempo, è stata relegata in un angolo remoto della memoria, perché solleva dolori e traumi ancora vivi.
La squadra che arrivò a Saint Louis vinse il titolo di “World Champions”. È un’espressione tipica americana, che si usa anche nel football. Anche se non è un torneo mondiale, alla squadra vincente piace darsi un titolo iridato. Le partite furono tutte interne negli USA, ma il gruppo di giovani atlete arrivava da anni di preparazione, allenamenti ed esibizioni. A quell’epoca, in cui le attività sportive femminili erano limitate, queste ragazze formavano per davvero il team più forte del mondo. Attiravano folle di pubblico, si meritavano la copertura della stampa. Questa gloriosa rappresentazione è però solo una patina che rimane sulla superficie, perché parlare della prima squadra di basket femminile negli Stati Uniti comporta anche affrontare argomenti come privazioni, separazioni, e abusi subiti dalle atlete. E per un motivo preciso: le giovani atlete erano tutte native americane, venivano dalla Fort Shaw Boarding School in Montana, ed erano le più brave cestiste americane, e del mondo.
Per ricordarle, ecco i nomi delle atlete che furono parte della squadra in diversi anni.
Josephine Langley, capitano, tribù Piegan e Métis.
Minnie Burton “Big Minnie”, guardia sinistra e ala sinistra, tribù Lemhi Shoshone.
Emma Rose Sansaver, ala destra, tribù Chippewa, Cree e Métis.
Delia Gebeau, guardia sinistra, tribù Spokane e Métis.
Genevieve “Gen” Healy, guardia, tribù Gros Ventre.
Catherine “Katie” Snell, guardia, tribù Assiniboine.
Sarah Mitchell, attaccante, tribù Assiniboine, Chippewa, Shoshone.
Flora Lucero, attaccante, tribù Chippewa, Cree.
Rose LaRose, ala, tribù Ojibwe.
Genie Butch, difensore, tribù Blackfeet.
Belle Johnson, centrale, tribù Chippewa.
Lizzie Wirth, ala, tribù Gros Ventre.
Nettie Wirth, ala, tribù Gros Ventre.
Fort Shaw si trovava nella Sun River Valley, in Montana. L’insediamento nacque come presidio militare durante la conquista del West, e fu convertito nel 1892 in collegio dove accogliere i bambini sottratti alle tribù native. “Accogliere” significava convertire, assimilare, privare di ogni residuo di identità indigena, trasformare in forza lavoro docile.
Quella delle Boarding School del Nord America è una delle iniziative più buie, violente, e tragiche della storia delle relazioni del governo americano (e canadese) coi nativi, perpetrata con la complicità delle “denominational schools”, ovvero le scuole a orientamento religioso.
Le tribù erano forzate a consegnare i loro bambini, che venivano portati a migliaia di chilometri di distanza e che, in alcuni casi, non sarebbero più tornati alle loro famiglie, ma sarebbero stati scaraventati, morti di malattie, punizioni e stenti, in qualche fossa comune nel giardino delle scuole.
Le Indian Boarding Schools erano state ideate da Richard Pratt. Dopo aver gestito con successo un carcere in Florida, Pratt sviluppò la diabolica idea che un sistema scolastico basato su rigorose regole militari avrebbe potuto dare buoni frutti nell’estenuante lotta con le tribù native. Alcuni studi dimostravano a mo’ di slogan che una pallottola per uccidere un indiano costava più della sua “rieducazione”. Pratt pronunciò un motto che riassumeva molto bene la mentalità del tempo: “Kill the Indian, save the man”. Uccidi l’Indiano, salva l’uomo. La strategia piacque al governo, che, dopo il successo del progetto pilota alla Carlisle Indian Boarding School in Pennsylvania, finanziò scuole in tutto il territorio nordamericano.
Quando il presidio militare della Sun River Valley non era più necessario, la struttura del Montana venne convertita in collegio, per raccogliere i bambini indigeni delle tribù dell’area.
Le vicende che accompagnano la sottrazione dei bambini sono devastanti. In alcuni casi, per i genitori era l’unica opportunità di garantire ai bambini la sopravvivenza. Ma in altri, i genitori non volevano abbandonare a degli estranei i propri piccoli. Di fronte alle resistenze, fu istituita una polizia dedicata proprio a individuare i bambini da mandare nei collegi. Quando non collaboravano, i genitori venivano incarcerati finché cedevano. In alcuni casi, le tribù escogitarono metodi per nascondere i piccoli. La polizia reagì con raid spesso notturni. In un racconto di un ufficiale si leggono descrizioni come “i bambini scappavano nei boschi, e noi li inseguivamo per catturarli come fossero conigli”.
Nelle boarding School, la disciplina era rigida, l’impatto brutale. Ai bambini venivano tagliati i capelli, veniva loro assegnato un nome inglese in luogo degli evocativi nomi nativi, non era loro permesso usare la propria lingua, non potevano pregare o giocare come avevano imparato a fare nella propria tribù.
Le violenze e le punizioni erano sadiche, estreme. In molti casi, portavano alla morte. I numeri sono ancora incerti, molte famiglie non hanno mai rivisto i propri bambini, spariti nella voragine distruttiva della colonizzazione.
Fort Shaw si adeguò alle stesse regole. Il secondo direttore, Campbell, aveva però due ulteriori ambizioni. La prima era dimostrare che la sua scuola aveva successo, e cioè riusciva nell’intento di cancellare ogni segno di appartenenza a una tribù indigena, la seconda era assicurarsi che, una volta terminato il programma, i nativi potessero inserirsi nella società come componenti della civiltà americana a tutti gli effetti. Per fare ciò, era necessario che anche le comunità attorno a Fort Shaw visitassero la scuola per essere pronte ad accogliere i giovani indiani “riformati”.
Per riuscire nel suo obiettivo aveva bisogno di due elementi: un pubblico a cui dimostrare che la sua scuola dava risultati egregi, e un’idea che attraesse la comunità delle zone vicine a Fort Shaw a visitare la scuola. Il catalizzatore perfetto era lo sport.
L’ingrediente segreto (e ancora ignoto) della ricetta di Campell stava viaggiando in treno verso Fort Shaw. Josephine Langley aveva studiato a Fort Shaw, ma poi Richard Pratt l’aveva portata alla Carlisle in Pennsylvania perché molto promettente. A causa di un’infezione recalcitrante all’occhio, nel 1890 Langley fu rispedita in Montana.
Nel suo viaggio di ritorno a Fort Shaw, Josephine portava nel proprio bagaglio il basketball, che aveva praticato a Carlisle diventando una brava giocatrice. La pallacanestro era stata creata pochi anni prima da un medico, il dottor James Naismith, che in Massachusetts aveva bisogno di escogitare un’attività che si potesse giocare al chiuso per intrattenere giovani studenti durante i lunghi mesi invernali, quando cioè non si poteva giocare all’aperto a calcio, rugby o al mix che è diventano il football.
La storia della squadra più forte del mondo iniziò proprio quando Langley scese dal treno che l’aveva riporta alla Sun River Valley in Montana.
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Nel secondo episodio: la storia della squadra, l’exploit alla Fiera Mondiale, la fine, e alcune risorse per approfondire.